Il gallo attraversò la polvere della strada, con le sue piume lucenti e affusolate e la sua espressione stupida ed arrogante. I sassolini crepitavano sotto le suole di gomma di Anna, mentre le si scavava passo dopo passo il bruciore del callo dell'infradito. La puzza di immondizia si mescolava con il senso di asfissia provocato dal calore, e l'umidità portava la pelle bianca della giovane, lentigginosa ed intimidita dalla canicola di mezzogiorno, a sudare mescolando l'unto della crema solare con l'appiccicume dello spray antizanzare. Un altro passo, un'altra punta di bruciore tra alluce e indice. Al viale si affacciavano gli ingressi dei compound, con le loro pietre decorate e i moduli geometrici, aperti al loro centro come da un terremoto per accogliere lo sguardo curioso e indiscreto di ogni turista di passaggio nel villaggio. Dai larghi e scuri occhiali un po’ appannati, anche Anna non resisteva alla tentazione di intrufolare lo sguardo al di là di quegli ingressi, tra le colonne, sotto l'ombra delle verande, per scoprire come si vive lì dentro, se si è più felici, lontano dalla città, dai mezzi pubblici, dai minuti contati, dal rincorrere un desiderio dopo l'altro senza requie. Se si è più felici, o perlomeno, in quel mezzogiorno, più freschi. In fondo al viale c'era il tempio, con le sue torrette alte e i pennacchi di foglie di palma essiccate e fiori variopinti. C'era una cella per ognuno degli dei, una cella vuota, che attendeva di ospitarli. Ogni cella aveva i il tetto di capelli neri, i fili neri delle palme, come nera era la pietra compressata con cui ogni centimetro del tempio era costruito. La sua ieraticità pareva millenaria, ma la guida disse che la struttura non aveva più di 30 anni. E millenario pareva il sorriso sdentato del vecchio che la guardava, seduto sui gradini del suo compound. Un vecchio dalla pelle ambrata e rinsecchita, gli occhi dolci ed intagliati sul viso, con qualche dente buttato qua e là tra le gengive. Esponeva un coro di bottiglie di plastica di Coca Cola, Pepsi e intrugli strani e poco credibili. Calde e cocenti, sotto il sole. “Halooo… any drink please…?” L'uso del “please” in quel paese era un mistero per Anna e Sebastiano. Pronunciato a caso, era diventato un intercalare e lo avevano capito il giorno in cui una signora per la strada, per attirare la loro attenzione, aveva esordito con un educato “Goodmorning please…”. Un gatto magro e dallo sguardo malvagio uscì dallo stretto canale che separava i compound e si fermò in mezzo alla strada, davanti ad Anna, Sebastiano e la guida. Li fissò con l'aria di essere il padrone, lì, mentre la macchina fotografica di Seb, abbagliata dal sole accecante di mezzogiorno, tentava di catturare per immagini gli stessi pensieri che Anna non riusciva ad esprimere a chiare lettere nella sua testa. Il tempo era sospeso, in quel villaggio. Le donne stavano preparando le decorazioni per la festa, e si sentiva un quieto mormorare al di là dei muri. Le galline si buttavano in strada correndo come pazze. Il tempo lì non sembrava essere un problema. E il caldo, il sole, rendevano immobili ed eterne tutte le cose. Come quando si studia tutta la notte, fino al mattino: dopo le due, tutte le ore si assomigliano. Un'altra donna sulla strada vendeva tubi di Pringles e portachiavi scoloriti dal sole. Sebastiano si era da poco inoltrato su una striscia di marciapiede che costeggiava un canale, e la guida si era fermata a chiacchierare in indonesiano con il vecchio seduto sui gradini. Anna continuava a salire, a camminare verso il tempio, cercando con gli occhi di poter scorgere, tra i pertugi e gli ingressi dei compound, qualcosa di più. Ed eccole. Due mandorle nere. Due occhi vivi e profondi come il mare di notte. Una frangetta di capelli lisci e scuri, irregolare, tagliata male, che incorniciava un visetto curioso e allo stesso tempo spaventato. La bambina si nascondeva dietro una delle colonne di un portico, poco dietro all'ingresso del compound dove probabilmente abitava. Fissava Anna da un po’ di tempo, quando la ragazza si accorse di lei. Avrebbero potuto sorridersi a vicenda, ma non accadde. L'una era troppo spaventata dalla straniera. Dai suoi lineamenti diversi, dal suo pallore, dagli occhiali che la coprivano, dai suoi movimenti faticosi ma affascinanti. Era bella. E l'altra era silenziosa, intimidita da quello sguardo indagatore, da quegli occhi che scavavano dentro di lei. Riverente di fronte al ricordo della bambina che era stata, dalle mille curiosità che aveva avuto, dai sogni immaginati e non ancora realizzati. Entrambi i loro cuori erano troppo in tempesta per sorridersi, e così si fissavano, studiandosi a vicenda. Ognuna presa nella lotta con l'altra, e con se stessa. Sostenendosi vicendevolmente lo sguardo, sembravano parlare con gli occhi una stessa lingua silenziosa ma comune. Anna pensava a tutto lo spazio ed il tempo che quella bambina aveva per correre e giocare. Sbattendo le palpebre nervosamente, Anna le guardò il corpo. Si soffermò sulle mani minuscole e i piedini scalzi, sporchi. Cercò di immaginarla in uniforme, come aveva visto le altre bambine, nel suo saltellare con le amiche andando a scuola, e si chiese per quanti anni avrebbe ancora potuto studiare, che mestiere avrebbe voluto fare, se avrebbe lasciato il villaggio un giorno, se avrebbe viaggiato, oppure avrebbe venduto bibite intorbidite dal sole ai turisti sudati e ignoranti. La bambina continuava a sostenere il suo sguardo, con aria imbronciata e fiera, e questa volta la sua espressione era distante e piena di inquietudine. Il suo viso sembrava vivere in un altro universo, in un altro tempo, imperscrutabile. Anna si scostò i capelli dalla fronte, scoprendosi a desiderare un destino di bene per la bambina. Ma senza avere la minima idea di che cosa poterle augurare nel concreto. La bambina, come di riflesso, fece lo stesso gesto per scostarsi la frangetta da una parte, imitando Anna e cominciando ad aprire il suo sguardo, come quando uno ti tende una mano mentre ti perdona. Anna allora si sciolse in un sorriso, che la bambina ricambiò complice, dolce e un tantino imbarazzata. La giovane abbassò gli occhi e li rialzò, ritrovando subito dopo quelli della bambina splendenti di ilarità. Allora Anna continuò a sorriderle, il viso sempre più tondo, la bocca sempre più aperta, niente più timidezza, ma solo spalancata amicizia. E la bambina era pazza di gioia, accennava a nascondersi, ridendo, dietro l'arco disegnato dall'orlo del proprio abitino, e le sue risate risuonavano nel silenzio del mezzogiorno, degli adulti accaldati e delle aie disordinate.
“Anna! Ma quanto sei salita?! Ti raggiungo!” risuonarono le suole delle scarpe di Sebastiano nel crepitìo della polvere e della ghiaia che calpestavano. Anna lo vide correre verso di lei e tentò a gesti di fargli capire che non doveva fare tanto rumore… ma inutilmente. Tornò con lo sguardo alla colonna, ma la bambina era sparita. Di là dall'ingresso del compound, per quello che si poteva vedere, dondolava l'ombra di una piccola voliera sulle piastrelle dai motivi geometrici, mentre intorno risuonava un cigolio, metronomo regolare sul borbottare vano e impertinente di galline, galli e polli.
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