Natalia e Lucia: le due bimbe e la loro mamma ispanica si siedono per un bagel con Nutella al tavolo accanto al mio. Natalia è la più grande. Ha 5 anni, uno scettro glitterato e un cerchietto giallo di plastica con le orecchie da gatto. Le cade un rivolo di Nutella dal bagel, la mamma è distratta: lei lo raccoglie col dito dal tavolo e se lo lecca. Festa di batteri! Regola dei cinque secondi! Perché la Nutella è come il maiale: non se ne lascia giù niente! Lucia – si chiama come me ma la sua mamma lo pronuncia alla spagnola, “Lusìa” – avrà poco più di un anno. Con le sue manine paffute si libera dalle cinghie del passeggino e si mette in piedi, finché non rischia di cadere, e la mamma se ne accorge. Così la libera del tutto, ma la bimba è un tormento di inquietudine. Sale e scende dalla sedia, cerca il contatto fisico con la sorellina, ancora tutta intenta nel gustare la sua Nutella. Ottiene un pezzo di bagel e una forchettina di plastica e passeggia avanti e indietro in piedi sul divanetto, col passo incerto di chi ha appena cominciato a camminare e i movimenti goffi di chi porta ancora il pannolino. Sul muro accanto a me è stampata la figura di un cagnolino: Lucia si avvicina, cerca il mio sguardo e me lo indica, me lo vuole mostrare. Io le sorrido. Lei insiste, così sfodero le quattro parole di spagnolo che conosco: “El perro, te gusta?” “Bonito perro”.
Lei sorride e mi offre i suoi splendidi quattro dentini, uno per ogni parola di spagnolo che conosco.
Mi regala generosamente un pezzetto ciucciato del suo bagel e continua a indicarmi il “perro”. Sua madre le chiede se ha trovato un’amica e ci sorridiamo. Ok: ho l’approvazione, posso giocare con sua figlia senza sembrare una maniaca. Allora le faccio il verso del “perro” e le stuzzico la panciotta come se le mie mani fossero un innocuo perro che la vuole mordicchiare. Sorride con gli occhi color Nutella e sulle guance la luce di una bambina sicura e felice. Sua sorella ha finito il bagel e viene tra noi. Lucia mi offre di tutto: ancora un po’ di bagel smangiucchiato, la sua forchetta, pezzi di mandorla provenienti non si sa da dove. Ora anche la mamma ha finito il suo bagel. Carica il possibile sul passeggino e attacca l’impossibile al manico del trolley. Io sono tornata a guardare il mio computer. Se ne vanno senza salutare. Abbasso gli occhi: è rimasta una scaglia di mandorla sbavata caduta sul mio zaino.
Le signore… sembra che stiano decidendo le sorti del mondo. Un piccolo ONU all’aeroporto di Miami, stand dei bagel.
Parlano spagnolo (cubano? Messicano?). Entrambe ampie come il Golfo e dalla lingua implacabile come le sue correnti, ne hanno una per tutti. Non vorrei mai essere la protagonista delle loro discussioni. Vorrei invece che il loro cardigan mi facesse da coperta, dal freddo che sento. Aver freddo in Florida, pare un controsenso. Ma gli americani sembrano essere un controsenso, e il loro abuso dell’aria condizionata decisamente lo è.
Brutto e sporco dal viaggiare, ma onesto e di buon cuore. Quasi pelato al centro e non ai lati, con la sua polo color vinaccia e due zaini: uno per ogni spalla. Suo figlio avrà 9 anni, si siede con lui e beve la sua Coca Cola. Chiacchierano come vecchi amici, compagni di mille avventure. Parlano in spagnolo, anche loro, ma mi chiedono la password del wifi dell’aeroporto in inglese. Mi scuso, ma non la conosco, sto lavorando in locale. Che poi in realtà non sto lavorando, sto leggendo il pdf del libro di poesie del mio amico Samuele. E così il ragazzino mette su gli auricolari e fa play sul suo cellulare. Il padre legge qualcosa su un kindle, sui cui le parole di ogni pagina sono poche e molto grosse. Ed ecco: il ragazzino si mette a cantare.
Fa un certo effetto leggere le intime poesie di un amico e concentrarsi a capirle mentre di fianco un ragazzino di 9 anni ti canta a bocca stretta Miley Cyrus, con tanto di accenno al relativo balletto.
Mani sulla tastiera, guardo dritto di fronte a me aspettandomi che da un momento all’altro tutti gli omaccioni della security si mettano a ballare anche loro tutti coordinati tipo Non è la Rai. Visto che la security però è troppo intenta a lavorare, il ragazzino si appoggia allo zaino e si addormenta con gli auricolari nelle orecchie. Arriva la mamma: era andata a fare shopping. Li preleva, buon viaggio.
È appena passata una ragazza di colore, con i capelli legati in una crocchia, onesti occhiali da vista, e il corpo avvolto in una coperta di pile azzurra e gialla di Spongebob. Molto bene.
Due vecchi, una coppia. Lei ha un completo di tweed: pantaloni con la piega e giacca. Un foulard argento legato a cravatta, ai piedi sandali glitterati argento, bassi. Borsa argento, unghie dei piedi curatissime, tinte di rosso e – ancora – argento. Cappellino con la visiera fuxia e capelli cortissimi sotto. Lui ha una camicia bianca a quadretti blu, una discreta pancia e un cappellino con la visiera nero dei New York Yankees. Zoppica, e ha un gran da fare a procurarle lo zucchero. Mangia il suo bagel con fare avido e opulento. La signora ha appena versato la terza bustina di zucchero nel tè.
Liberando il fazzoletto per pulirsi la bocca, ha fatto volare come coriandoli a terra tutte le bustine vuote e strappate, carnevale di noia. Non una parola tra di loro, non una. Solo un croccare di chips.
È appena passato un italiano… ha detto al telefono: “L’unica cosa…” e poi se ne è andato. Quale sarà l’unica cosa? Caspita avrei potuto non udirle tutte, scordarmele tutte, ma l’unica cosa, quella, l’unica davvero importante… quella l’ho persa.
Quest'altro si siede con il suo codino di capelli bianchi e una mano fasciata. Aspetta il suo caffè, neppure incrocio il suo sguardo. Eppure andandosene mi saluta e mi augura buon viaggio.
Julia ha un abitino viola, uno zaino rosa più alto di lei, lunghi capelli castani, lineamenti irregolari, un po’ bruttini. Sembra avere solo 8 anni, nonostante i piedi lunghi e magri ci rivelino che diventerà piuttosto alta. Scherza con sua madre mentre aspettano il caffè.
Se ne vanno presto, sciabattando in infradito (si può forse dire che Miami è la Rimini d’America? Non so, avrei voluto andare a vedere, ma la stronza che vendeva i biglietti per le navette mi ha fatto capire che non avrei avuto abbastanza tempo.
E non riusciva nemmeno a digitare il mio nome sul biglietto perché aveva le unghie troppo lunghe. Una cazzo di cosa devi fare nel tuo lavoro: digitare su un tablet. E non ce la fai. Sai che c’è? Me ne sto in aeroporto a leggere e scrivere).
Una cosa che mi fa sempre impazzire dei bagni dei barbari – sassoni – e la loro discendenza è il gancino per la borsa o per il cappotto nella toilette. Non so perché ma in USA l’ho sempre trovato, in UK idem. In Germania non ricordo, ma ogni volta che trovo un gancino in bagno lo apprezzo davvero tanto.
Chissà, magari i romani andavano in giro più leggeri mentre i barbari avevano bisogno di appendere la sacca con le asce e la ferraglia prima di fare la pipì, un po’ come me.
Ho cercato di ingannare il bruciore di stomaco che questo viaggio mi sta regalando mangiando del ramen, ma non ha funzionato. Nello zaino che mi porto dietro come bagaglio a mano avevo messo costume e telo da mare, nella timida speranza di andare fino a South Beach in queste 8 ore e farmi un bagno… beh quell’asciugamano me lo sono messa sulle gambe a mo’ di copertina. Il ramen era autentico come me nei panni di Rossella O’Hara a Carnevale, ma almeno mi ha scaldata.
Pare che l’unico giorno di fulmini di tutto l’anno meteorologico di Miami me lo sia beccato io. Guardo fuori e mi sento già a Londra.
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